vitel tonne

Vitel tonné caldo

Un grande classico, che compare senza indugi in bella vista sull’Artusi: “Prendete un chilogrammo di vitella da latte…”. Ve lo proponiamo in una versione particolare, quella calda. Cucinato per voi da Matilde Brandi, che con questa ricetta fa il suo esordio su Chef per passione e ci accompagnerà nelle prossime settimane con le ricette dell’Accademia della cucina italiana.

Il francesismo del nome “vitel tonné” non si deve a una sua origine d’Oltralpe: si tratta infatti di un antipasto piemontese, nato nella confinante provincia di Cuneo. Nella ricetta originale, che risale agli inizi dell’Ottocento, pare che di tonno non ci fosse alcuna traccia: si chiamava così perché il vitello veniva bollito come se fosse un tonno (che all’epoca non compariva affatto nella cucina locale). Solo successivamente alla salsa è stata effettivamente aggiunta la ventresca, che ha senz’altro arricchito la preparazione e lo ha trasformato in un vero piatto “mare&monti”. Una combinazione tipica, peraltro, di quella regione, dove spesso compaiono le acciughe (un tempo meno care del sale!) nelle squisite ricette di carne locali.

Partiamo dal vitello: quale vitello? Il taglio della carne che scegliamo è importante, perché deve essere una parte magra, tenera ma compatta. Girello (il taglio migliore della coscia), noce (altro taglio nobile della coscia, che corrisponde al nostro quadricipite), magatello (situato proprio sotto la coda). O pesce: di vitello, naturalmente! Un piccolo taglio meno pregiato, ma che va bene per questa preparazione. Come tutta la carne di vitello, va cotta a punto (mai al sangue). Importantissima anche la qualità degli altri ingredienti della salsa, a partire dalle acciughe – pesce azzurro sempre squisito e sano – ai mediterranei capperi (i migliori sono quelli piccoli, top quelli di Pantelleria).

Una curiosità: sapete che Heinz Beck, 3 stelle Michelin dalle germaniche origini, ha invertito la ricetta, creando il “tonno vitellato”(tonno grigliato con gelatina di vitello alle erbe)?

agliata

Bagna caoda e agliata

La Bagna Caoda è un piatto antico, forte, “maschio” molto radicato nella tradizione piemontese. “Forse la più appetitosa composizione di questa cucina patriarcale” – scriveva Amy Bernardy, giornalista e storica italiana (FI, 1880 – 1959) nel suo Piemonte.

Mangiare Bagna Caoda significa accompagnarla con un buon bicchiere di rosso, vuoi giovane, vuoi maturo, ma comunque di corpo: questo piatto è nato proprio per festeggiare la fine dei lavori in cantina e i primi assaggi del vino nuovo. È un piatto decisamente conviviale, che viene oggi spesso servito come antipasto ma nasce in realtà come piatto unico.

Quali acciughe scegliere? Le migliori che si possano trovare! Non cadete nell’errore di pensare che, dato il mix di ingredienti e il sapore forte dell’aglio, potete permettervi di usare acciughe di scarsa qualità: errore!!! Anche l’olio, mi raccomando, deve essere della migliore qualità.

Sulle verdure abbiamo visto che ci possiamo sbizzarrire, anche se quelle della tradizione sono ben precise, con l’accortezza di evitare quelle troppo aromatiche, come sedano e finocchio. Il pane? Non serve, anche se a molti piace averlo in accompagnamento. Meglio piuttosto servire fettine di polenta, arrostita o fritta.

Ai giorni nostri, giorni dai gusti più “molli” che in passato, abbiamo visto che le dosi d’aglio si riducono rispetto alla ricetta tradizionale e spesso le fettine d’aglio vengono messe preventivamente a bagno nel latte per alcune ore, per disperdere parte dell’umore indigesto.

Di Bagna Caoda esiste anche una versione “gentile”, dove il latte è parte integrante della ricetta, per stemperare l’aglio e che viene servita su fettine di filetto di manzo.

E poi, naturalmente, nel resto d’Italia ci sono le Agliate, salse a base di aglio con ingredienti e sapori che variano a seconda della regione. Vi proponiamo quella abruzzese, con le mandorle, molto simile all’Agghiata trapanese, che prevede anche la menta come ingrediente facoltativo. Queste salse si usano per condire carne, pesce e verdure fritte. E indovinate cosa usavano fare un tempo- che con i contemporanei criteri dietetici ci fa un po’”inorridire”? Di prepararla usando l’olio di frittura della pietanza da insaporire…

tatu

Tatù

È un antichissimo dolce bisentino, ossia che arriva da Bisento, un paese collinare di 2000 anime che leggenda vuole abbia dato i natali a Ponzio Pilato. Oggi appartenente alla provincia di Teramo, in Abruzzo, vanta una tradizione culinaria davvero ricca. Tra i suoi dolci spicca, appunto, il Tatù, che ha reso questo paese famoso in tutt’Italia. In passato era fatto col miele e solo da qualche secolo è stato arricchito anche con il cacao. I tatù sono rombi fatti con un impasto di ingredienti genuini come il cacao, il cioccolato fondente, il tuorlo d’uovo e le mandorle. E la stessa farina, che è bianca, sì, ma scelta solitamente nella sua versione nobile, grano tenero biologico macinato ‘a pietra’.

Era una ricetta usata dalle classi popolari, perché la particolarità di questi biscotti è che, mentre appena confezionati sono molto duri, si ammorbidiscono con il passare del tempo e possono essere conservati fino ad un anno, in un barattolo di vetro. Oggi sono diventati una preparazione per becchifini, e naturalmente sono state messe a punto diverse varianti golose, tra cui quelle al rum. Famosi oramai nel mondo i tatù del mastro cioccolatiere Ezio Centini, che li racconta come “un pane azzimo molto simile al pampepato ricoperto di cioccolata con una virgola bianca sopra che si chiama estozoi, spermatozoo“.

Nella ricetta c’è anche il vino cotto, un prodotto tipico dell’Abruzzo e delle Marche, dove il mosto dei vitigni autoctoni come la Malvasia viene fatto cuocere il grossi calderoni di rame, poi mischiato col mosto fresco e infine messo a invecchiare in botte per almeno due anni. Infine i tatù sono aromatizzati con la scorza del limone e la cannella, quella spezia fatta di fogli di corteccia arrotolati e infilati uno dentro l’altro, che fa tanto profumo di Natale. Ed è proprio a Natale, infatti, che una volta si portavano in tavola i tatù.

antipasto acciughe

Antipasto di arance e arancia modicana

Due ricette, una molisana e l’altra siciliana, una salata e l’altra dolce, in cui la protagonista è sempre lei, l’arancia.

L’antipasto di arance è semplice e ardito: accostare questo agrume originario della Cina eppur così Mediterraneo con il pesce più Mediterraneo che ci sia: l’acciuga, un pesce azzurro che come sappiamo ha davvero tante qualità benefiche per la nostra salute. Nella tradizione molisana quest’antipasto tipo della regione fa parte delle 13 portate della Mensa o Minestra di San Giuseppe. Sono tante in Italia le tradizioni di devozione a San Giuseppe legate al cibo e all’offrire il cibo agli altri. Sono Cene, Tavolate, Altari… In Molise a Lucito, in provincia di Campobasso, tradizione vuole che il 19 marzo un banchetto con tredici portate, esclusa la carne a motivo della quaresima, è offerto a tre poveri: un uomo, una donna e un bambino. Dagli spaghetti col sugo di baccalà alle lumache, pasando per l’antipasto di arance, appunto, per finire coi dolci tipici, sfringi e carange, preparati dalle donne per tutto il paese.

Parliamo un po’ dell’arancia: questo frutto era già ben noto nell’Antica Grecia e dai Romani, che però lo usavano solo a scopo ornamentale e simbolico, poiché erano considerate espressione di ricchezza e prestigio. È stato solo nel 1500 che in Sicilia sono partite le coltivazioni delle varietà che tutt’oggi arrivano sulle nostre tavole.

Sono tantissime, queste varietà, tra cui la bionda Arancia di Rivera DOP, che si coltiva nel territorio di Agrigento e l’Arancia Rossa di Sicilia IGP (riservata alle cultivar Tarocco, Moro e Sanguinello).

Il miele monofloreale fatto dalle api con i fiori di arancio è chiaro e si riconosce subito per il suo intenso odore di zagara: è squisito, ed è ricco di vitamine e di antiossidanti.

barbagiuai

Barbagiuai

È una sorta di grosso raviolo dagli ingredienti contadini tipico di una zona dell’estremo ponente ligure. I Barbagiuai sono caratteristici della valle dell’entroterra di Ventimiglia dove scorre il torrente Nervia, oasi di biodiversità. Lì si trova la borgata di Caporosso, dove a settembre si svolge la Sagra del Barbagiuai.

Il suo nome dialettale significa “zio Giovanni”. Ma qual è la storia di questo nome e di questa ricetta? Leggenda vuole che il suo inventore sia un cuoco provetto, Barba – ‘zio’ in ligure -Giuai, Giovanni, appunto.

A decretare la sua bontà è senz’altro il contrasto tra il dolce della zucca e il sapore deciso del Brussu, un derivato del latte simile a un formaggio cremoso e spalmabile / a una sorta di ricotta fermentata. È fatto con latte di pecora e di capra ed ha un sapore molto forte, quasi piccante. È tipico dell’entroterra della provincia di Imperia ma anche di molte valli del confinante Piemonte, dove si chiama Bross. In Liguria è stato riconosciuto come Prodotto Agroalimentare Tradizionale (PAT) e quello della Valle Arroscia è presidio del gusto di Slow Food.

Altro ingrediente tipico della ricetta sono i fagioli, poiché originariamente si usano quelli di Pigna, che sono a metà strada tra i cannellini e gli spagnoli. Sono fagioli bianchi che vengono tradizionalmente coltivati nel territorio che oggi è Parco Regionale delle Alpi Liguri, ad un’altitudine compresa tra i 300 e gli 800 metri. Anch’essi sono un Presidio Slow Food! (Slow Food è l’organizzazione senza fini di lucro nata nelle Langhe e oggi diffusa in tutto il mondo, che protegge cibi e procedimenti alimentari tradizionali e in via d’estinzione).

Oggi il Barbagiuai viene normalmente fritto, ma anticamente era in uso infornarlo o anche cuocerlo sulla “ciappa”, la sottile lastra di ardesia su cui anticamente in Liguria venivano cotti paste&pani, tra cui le omonime sfoglie croccanti, le Ciappe.

fichi

Fichi ripieni

Nelle diete moderne il must è: tagliare gli zuccheri. Una volta, invece, lo zucchero era un bene di lusso: nelle campagne calabresi, insieme al miele, i fichi secchi sono stati la fonte principale se non unica di zucchero fino a gran parte dell’Ottocento. Quindi ai giorni nostri è meglio evitarli? Niente affatto!!! I fichi secchi, carichi di energia e qualità nutritive utili, sono una scelta alimentare furba. Perfetta per gli sportivi ma anche, solo apparentemente paradossalmente, per chi vuole stare a dieta: sono infatti un ‘blocca-fame’. Hanno un alto contenuto di fibra e di minerali tra cui in particolare ferro, potassio (che contrasta il troppo sale nella dieta) e il calcio, amico delle ossa (i fichi contengono più calcio rispetto alla maggior parte degli altri frutti). La porzione ideale? 4 o 5 fichi. In questa ricetta, però, sono arricchiti di altri ingredienti sani eppur calorici, quindi non esageriamo con le dosi quotidiane, tre possono essere sufficienti! Sono farciti di noci e mandorle: lo sapevate che un mega studio scientifico ha dimostrato che la frutta a guscio allunga la vita e aiuta a mantenere il peso-forma? Chi mangia frutta secca quotidianamente – hanno appurato i ricercatori in questo studio di lunga durata che ha coinvolto ben 34mila persone (Loma Linda University, California, 2016) – vive fino a tre anni di più della media. E la dose giornaliera giusta sono 30 gr, ossia 3 noci o due mandorle. Anche il cioccolato amaro è stato riabilitato alla grande, non solo a livello di gusto (il vero cioccolato gourmet è oramai dichiaratamente solo quello fondente) ma anche di salute: il cioccolato è amico del cuore, aiuta a prevenire infarti e ictus. E che dire del cedro candito, re di panettoni e cannoli alla siciliana? Il profumato cedro è un agrume antico; in Calabria, nella Riviera dei Cedri, una fascia di litorale tirrenico in provincia di Cosenza che comprende 22 Comuni tra cui Santa Maria del Cedro, se ne coltivano anche una varietà particolari, come il Cedro liscio e il Cedro giudaico. I fichi ripieni si conservano a lungo e in Calabria vengono accomodati in scatole e scatoline di latta e donati per Natale a parenti e amici: potete farlo anche voi!

taroz

Taròz

È un pasticcio di formaggi, legumi e verdure che viene dalla Valtellina, in Lombardia, una regione alpina a monte del lago di Como.

Tarare” significa (ri)mescolare: da questo verbo nasce anche il nome della Polenta Taragna. Nei Taroz, invece, ciò che si mescola sono le verdure e i legumi con i formaggi. Tutti ingredienti che si trovano in quelle zone montuose.

Taròz = mescolata, mix. Il mix, come spesso avviene, può essere variabile. In alcuni casi, ad esempio, viene arricchito con la pancetta. Un piatto ‘povero’ ma non per questo povero di energia. Infatti si possono considerare circa 500 calorie a porzione: per questo, anche se normalmente viene oggi servito come antipasto o contorno, la sua posione reale in tavola potrebbe tranquillamente essere quella di piatto principale…

Il VIP della ricetta è il Casera, un formaggio DOP tipico proprio di quella valle. Un formaggio vaccino dalla pasta dura o semidura, ottenuto solo da latte vaccino locale che porta i sapori e i profumi della montagna. Ha un sapore dolce e delicato e si usa per condire i pizzoccheri, altra eccellenza gastronomica locale.

A volte il Casera è sostituito col Bitto, un altro formaggio d’alpeggio della valle, anch’esso un DOP ottenuto dal latte vaccino crudo.

Tra l’altro, sapete che i prodotti della Valtellina si possono acquistare anche online, e arrivano entro 48 ore a casa vostra?

E adesso due parole sulle patate: sono il quarto prodotto agricolo più diffuso al mondo (dopo riso, grano e mais). Oggi le svalutiamo a livello di apporto nutritivo anche perché l’odierna agricoltura convenzionale spesso ci dà patate effettivamente povere di nutrienti e ricche di amido. Male patate che vengono coltivate in montagna di solito sono di ben altra e più elevata qualità.

In Valtellina in particolare si coltivava la Patata Blu, un’eccellente patata dalla polpa violablu scuro. Oggi purtroppo questa varietà è qua si totalmente scomparsa, ma qualche coltivatore virtuoso ci sta riprovando! W la biodiversità in agricoltura!

cajettes

Cajettes

Sono grossi gnocchi a base di patate crude grattugiate, tipiche della cucina dell’Alta Valle di Susa, Piemonte.

Nella ricetta che vi proponiamo si usa la salsiccia; in alternativa viene usata la pancetta, a volte insieme ad alcune verdure di stagione, in particolare la verza. Esistono varianti nella ricetta, infatti, a seconda delle vallate, dei paesi e… delle singole famiglie! Si tratta in ogni caso di un piatto della tradizione contadina occitana, una comunità che in Italia vive in parte del Piemonte e della Valle d’Aosta e ha tradizioni, cultura, balli e una lingua tutta propria (la lingua, detta anche “Patois” (patuà) è la famosa “Lingua d’Oc”, quella lingua romanza che durante l’epoca medioevale toccò l’apice della propria diffusione). Naturalmente gli Occitani hanno anche una grande tradizione gastronomica, di cui le Cajettes fanno parte!

Un piatto “povero” e molto genuino, con tutti ingredienti di montagna: quando lo riproduciamo in città, dobbiamo badare a scegliere comunque materie prime di sincera qualità.

Le patate in particolare dovrebbero essere quelle di montagna. Nei territori montani della provincia di Torino, sino a 1800 metri s.l.m., accanto a varietà italiane ed estere di recente introduzione vengono ancora coltivate antiche selezioni locali, che presentano qualità organolettiche di pregio, difficilmente ottenibili nelle coltivazioni intensive di pianura, anzi esaltate dall’altitudine. La resistenza naturale alle malattie cresce con l’aumentare della quota, annullando la necessità di trattamenti fitofarmacologici; il clima fresco non richiede irrigazione.

Per quanto riguarda le tome, sono previste quelle d’alpeggio, che hanno la caratteristica di portare con sé i profumi e gli aromi della montagna. La pasta del formaggio di solito è di colore giallo-dorato, il che è dovuto dalla forte presenza del beta-carotene dovuto all’alimentazione a base d’erba fresca delle mucche locali.

gubana

La gubana

Un dolce tipico del Friuli Venezia Giulia, in particolare della provincia di Udine e del goriziano. C’è poi una località nel Cividalese, il paese di San Pietro al Natisone, che si trova nei colli del Friuli orientale, dove tradizione vuole che si produca una Gubana tutta particolare, che arricchisce ulteriormente gli ingredienti con il cioccolato (grattugiato o tritato finemente) e sostituisce la grappa con il Rhum.

A proposito di grappa, sapete cosa è lo slivoviz – o ancora meglio: la slivoviza? Una grappa, si dice, in realtà è un’acquavite. Che differenza c’è? Le nostre grappe sono prodotte distillando la vinaccia, ossia la parte solida dell’uva (buccia e vinaccioli); l’acquavite si ottiene distillando l’uva intera fermentata. E la slivoviza? Le prugne! Šljiva = prugna in serbocroato – questo superalcolico infatti è tipico dei Balcani. È dunque un’acquavite che per gradazione, colore e anche tipologia d’alcolico assomiglia alle nostre, ma ha un suo aroma tutto particolare. Io vi consiglio di utilizzare questa nella ricetta, personalmente la adoro! A parlando dei miei gusti personali: me piace aggiungere un pizzico di cannella – che è ammesso dalla ricetta originaria, tranquilli!

Torniamo alla Gubana nel suo complesso. È un dolce ricchissimo che infatti tradizionalmente si preparava solo per le feste (comandate o private). Questa torta è nota fin dal lontanissimo 1409, quando fu servita in un banchetto preparato in occasione della visita di papa Gregorio XII – che è stato l’ultimo papa della storia a rinunciare al pontificato, nel 1415 (6 anni dopo aver gustato la Gubana!) prima di Benedetto XVI nel 2013, 598 anni più tardi! Il papa – Gregorio, non Benedetto! – ha testimoniato di aver mangiato la Gubana a Cividale del Friuli, nel 1409, appunto.

Il nome “Gubana” fa riferimento probabilmente alla sua forma, dato che nello ‘slavo friulano’ guba, che significa “piega“. Questo dolce infatti pare sia originario proprio della “Slavia friluana” , quella collinare e montuosa (Prealpi Giulie) del Friuli orientale che si estende tra Cividale del Friuli e i monti che sovrastano Caporetto (in Slovenia), la cui denominazione si deve alla popolazione slava che lì si è insediata nel 1200 D.C.

Dal 1990 esiste il Consorzio per la protezione del marchio Gubana che tutela i produttori della specifica zona di produzione e detta precise norme e ingredienti per la sua preparazione.

gnocchetti scipolana

Gnocchetti alla collescipolana

Una ricetta densa e sostanziosa, che non ha nulla anche invidiare ai fagioli di Bud Spencer e Terence Hill! Il nome inganna, perché “gnocchetti” porta a pensare a qualcosa di molto più light… Collescipoli è il nome della località umbra, a due passi da Terni, a cui dobbiamo questo piatto. Un borgo antico arroccato su una rocca, in posizione strategica e molto faticosa da raggiungere, almeno un tempo: forse si spiega perché i suoi abitanti avessero bisogno di una cucina tanto energetica!

Un primo piatto che ha radici nella cucina contadina: in pratica si tratta di un piatto unico che doveva soddisfare le esigenze di un pasto completo. Ben si addice al periodo autunnale e invernale: è da mangiare preferibilmente quando fuori fa freddo, insomma!

Parliamo degli ingredienti. Innanzitutto bisogna notare che, anche se gli gnocchi sono per lo più di patate, in questo caso si realizzano soltanto con farina e pangrattato. Gli gnocchi sono piuttosto piccoli, tant’è che in loco per la loro preparazione si fa riferimento alle ciriole, impasto di acqua e farina tagliato a forma di grossi spaghetti che costituiscono la base dell’omonimo piatto ternano. Nella preparazione degli gnocchetti si usa dire: “dare alla pasta la forma di una ‘grossa ciriola’” , per indicare i rotolini dell’impasto di farina e pangrattato da tagliare poi in cilindretti.

Inoltre: molto spesso questa ricetta viene arricchita aggiungendo al condimento la salsiccia, spellata e sbriciolata. E poi. I fagioli: quali? Io vi consiglio i cannellini, adatti a ottenere quel risultato finale cremoso che tanto ben si sposa col resto. Ancora: alcuni al posto della pancetta utilizzano il guanciale. Moltissimi aggiungono il peperoncino, e non poco! E sfumano il tutto con il vino – rosso.

Per gustare tale piatto in tutta la sua bontà conviene mangiarlo quando è ancora caldissimo.

 

gnudi

Gli gnudi

Sono un primo rustico tipico della Toscana, in particolare delle province di Grosseto, Arezzo e Siena. Il termine con cui vengono indicati viene dal dialetto toscano e significa “nudi”, a sottolineare la “nudità” degli gnudi rispetto ai ravioli, che sono invece ricoperti da uno strato di pasta esterna.

Una ricetta praticamente identica è quella dei “Gnocchi del Casentino”, che ci viene tramandata dal castello di Poppi, splendida dimora che si erge su un colle tra l’Arno e il Sova (AR) e da dove un tempo governavano i Conti Guidi.

Qualche mio consiglio. 1) La ricotta deve essere freschissima. 2) Il pecorino, se preferite, si può sostituire col parmigiano e si può aggiungere una grattatina di noce moscata. 3) Se volete diversificare e impreziosire il piatto, potete preparare una leggera besciamella insaporita con pepe bianco e noce moscata e ulteriormente arricchita con un po’ di mascarpone, e ripassate la pietanza nel forno caldo per qualche minuto.

Lo Chef e conduttore televisivo Simone Rugiati si attiene alla ricetta classica, che condisce però burro&salvia, con qualche gheriglio di noce.

E adesso parliamo un po’ degli spinaci: ma Braccio di Ferro aveva ragione? Sì! Sono la verdura ideale per chi vuole muscoli sani e forti, perfetti dunque per gli sportivi. Attenzione: la concentrazione di nitrati, che sono le sostanze benefiche per i muscoli contenute negli spinaci, cambia enormemente a seconda delle condizioni in cui vengono coltivate le verdure, per esempio il tipo di suolo, i fertilizzanti etc. Scegliete spinaci di qualità, dunque!

Ma quanti bisogna mangiarne perché facciano davvero effetto sui nostri muscoli? Per raggiungere la dose giusta di nitrati ci vogliono due o tre “tazze” (“cups”), di spinaci, ossia due o tre belle manciatone abbondanti.

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La zafferanella

Cos’è la zafferanella? Uno zafferano selvatico che cresce sulle pendici del monte Conero, nelle Marche, regione gastronomicamente nota per i suoi fantastici brodetti di pesce, diversi a seconda della città: a Porto Recanati, proprio sotto il Monte Conero, l’ingrediente caratteristico del brodetto di pesce è la zafferanella. Buono a sapersi, ma ciò non c’entra nulla con la nostra ricetta! Che si chiama “Zafferanella” ma viene dalla tradizione del vicino Abruzzo e il cui ingrediente principe è il ‘normale’ zafferano. Impariamo dunque a conoscere meglio questa spezia da Re.

La maggior parte dello zafferano (Crocus sativus) che usiamo in cucina è di provenienza estera (arriva soprattutto da Iran, Cile, Spagna e Grecia), anche in Italia però viene prodotto: ci sono piccole coltivazioni di alta qualità in Abruzzo, appunto, e poi nelle Marche, ma anche in Umbria, Toscana, Sardegna e Lombardia. Ma è proprio in Abruzzo, nella zona dell’altopiano di Navelli vicino alla città dell’Aquila, che viene prodotto lo zafferano migliore al mondo: per la sua qualità e valore viene anche definito “l’oro rosso di Navelli”. La raccolta dello zafferano, rigorosamente all’alba, inizia nel mese di ottobre e culmina in novembre.

Lo zafferano è un antidepressivo, antistress, antiossidante… insomma, ’anti’ tante cose! Ma anche ‘pro’: pro-memoria, ad esempio, poiché in effetti ci aiuta a potenziare la nostra capacità di ricordare.

Avete mai pensato di coltivare lo zafferano sul vostro balcone? No? Ebbene, si può! Sappiate che potete avere la soddisfazione – e il risparmio! – di raccogliere con le vostre mani questa nobile spezia, e in ogni caso godrete della fioritura dei suoi piccoli fiori di una splendida tonalità di viola – che sono commestibili e possono fare un tocco di colore e ricercatezza ai vostri piatti!