plin

Agnolotti del plin

Sono una pasta fresca, piccolissime tasche di sfoglia d’uovo ripiene che hanno un posto di riguardo nella tradizione culinaria piemontese. “Plin” è il pizzicotto, quello che si dà alla pasta per chiudere il ripieno di questi agnolotti.

Nella versione che vi proponiamo sono una “pasta asciutta” che viene condita con la salsa ottenuta dal fondo di cottura delle carni che abbiamo utilizzato per preparare il ripieno. Alternative tipiche del sugo con cui vengono conditi sono con ragù di carne alla piemontese o con burro, salvia e Grana Padano o Parmigiano Reggiano.

C’è poi la versione in brodo, di carne, naturalmente, ma non solo. Tradizionalmente questi agnolotti si gustavano bagnandoli con vino rosso, oppure serviti in un brodo leggero in cui si aggiungeva il vino rosso. Tuttora nelle trattorie che servono cucina autentica si possono trovare gli agnolotti in brodo di vino. Altra alternativa in voga in passato: gli agnolotti ‘al tovagliolo’, ossia serviti su un tovagliolo bianco senza alcun tipo di condimento, per gustare al meglio il loro ripieno!

Nel ripieno troviamo tre tipi di carne – vitello, maiale e coniglio: si tratta della originaria delle Langhe e Monferrato, la loro patria, mentre in altre regioni del Piemonte non compare la carne di coniglio. Nel paese di Calliano, poi, che si trova in provincia di Asti, nel Monferrato, il ripieno tipico è di carne d’asino. Tra le tante varianti sugli altri ingredienti del ripieno, anche quella che nel periodo invernale aggiunge alle verdure il cavolo verza.

Sia gli agnolotti piemontesi che gli agnolotti del plin sono inseriti nell’elenco dei Prodotti Agroalimentari Tradizionali italiani (PAT), stilato dal Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali e quindi tutelati secondo un disciplinare della Regione Piemonte.

casca carloforte

Cascà di Carloforte

Questo piatto di origine araba, che viene chiamato “Cascà” o “Cashcà”, sopravvive soprattutto a Carloforte, principale centro abitato dell’isola di San Pietro, isola nell’isola all’estremo sud della Sardegna, di ligure origini e cultura. Sopravvive inoltre a Calasetta, che è un comune della vicinissima isola di Sant’Antioco e -udite, udite! –   comune onorario della città metropolitana di Genova.

Il couscous è tipico della cucina maghrebina e in Italia si è diffuso storicamente nel Sud della Sardegna e nel sud della Sicilia (trapanese). E poi, fuori dall’Italia, in Brasile!

La sua presenza a Carloforte è facilmente spiegabile: la cittadina omonima dell’isola è stata fondata all’inizio del 1700 da una colonia di corallari liguri che due secoli prima si erano trasferiti nell’isoletta tunisina di Tabarka. Ed è così che – via Liguria – la tradizione culinaria tabarchina è sbarcata in Sardegna.

È una semola di grano cotta al vapore, anche se oggi oltre al frumento si utilizzano molto couscous fatti con cereali diversi, come il farro, una nutriente alternativa per variare (in commercio le versioni più comuni sono le comodissime precotte).

La pentola che si utilizza per cucinarlo è quella che in Nordafrica si chiama couscoussier, un tegame in terracotta o metallo a doppia camera, formato da una marmitta per bollire l’acqua o il brodo di cottura e da una seconda parte, forata nel fondo, perfettamente combaciante, dove la semola si cuoce a vapore, formando granelli separati. Inoltre è dotata di coperchio.

La versione che stiamo preparando oggi è quella di Carloforte. A Calasetta non si usano i ceci e del maiale si preferiscono le costine. Il grasso di cottura originariamente non era l’olio extravergine, bensì il grasso di maiale.

Il couscous così fatto, con semola, carne e verdure, è inteso come piatto unico o comunque principale. Secondo l’usanza, gli ingredienti si possono servire anche separatamente, in vari piatti da portata così che i commensali possano decidere come gustare il couscous (più carne o più verdure, ad esempio).

acciughe e patate

Acciughe e patate

Acciughe & Liguria sono una coppia felice. “Le acciughe fanno il pallone che sotto c’è l’alalunga, se non butti la rete non te ne lascia una…”, cantava De André in coppia con Ivano Fossati. E acciughe&patate sono un’altra bella coppia, molto amata nella cucina ligure.

Il “tortino” di acciughe e patate è originario della Liguria del Levante, in particolare delle località costiere dello spezzino. Col tempo si è diffuso nel Genovesato e successivamente in tutta la costa della Riviera di Ponente.

Oggigiorno ne esistono alcune varianti, che differiscono per l’uso dei sapori o qualche altro dettaglio, ad esempio l’uso o meno del vino bianco. Una di queste è il Tian di Vernazza, la più elegante delle Cinque Terre. Il tian è il tegame, la teglia rotonda in cui si cuociono. “Tiàn de anciue”, si dice in Liguria per indicare questo piatto. La ricetta è simile a quella che stiamo preparando oggi, gli strati di patate e di acciughe sono multipli e vengono completati dai filetti di pomodoro e origano.

È una pietanza davvero gustosa, veloce, sana ed economica.

Le acciughe sono un “pesce azzurro” – che è una denominazione commerciale, non scientifica, ma sta a indicare quei pesci il cui dorso tende al blu-azzurro, appunto, mentre il ventre è argenteo. In realtà hanno in comune anche alcuni pregi nutrizionali, come quello di essere particolarmente ricchi di Omega3, i ”grassi buoni”. Le acciughe sono poi anche ricche di ferro -importante per ossigenare i tessuti e di potassio, un minerale fondamentale. 

In Liguria sono particolarmente famose le acciughe di Monterosso, un’altra delle Cinque Terre: una volta chiamate “U pan du ma”, il pane del mare, hanno un gusto particolarmente equilibrato: saporite ma nello stesso tempo delicate. Nei secoli a Monterosso si sono perfezionate le tecniche per la loro conservazione e le acciughe salate di Monterosso sono caposcuola per tutti i pescatori liguri.

il prete

Il prete

Una semplice torta di bietole che arriva da Carloforte e il cui nome in ‘lingua’ locale – “u prève” e le cui fattezze non tradiscono l’origine ligure di questa ricetta. Beh, tutto torna! Come sappiamo Carloforte è stata fondata da pescatori di corallo di ligure ascendenza. Infatti Carloforte in italiano (Carluforti in sardo campidanese) nella lingua locale, il ligure tabarchino, si chiama U Pàize (il paese).

Perché ligure tabarchino? Perché le genti che fondarono Carloforte sono partite dalla Liguria e più precisamente da Genova e più precisamente da Pegli e ‘sono passate’ un paio di secoli nella piccola isola tunisina di Tabarca prima di approdare nella piccola isola sarda (San Pietro) dove hanno fondato la città di Carloforte. Che sa tutta di Genova o comunque di un antico, bellissimo borgo ligure! Lingua, tradizioni e cucina, appunto, tanto che dal 2004 Carloforte è comune onorario di Genova!
E sapete che il “tabarchino”, questa lingua così simile al genovese antico, è stato studiato da De Andrè per la stesura di alcuni testi della raccolta Creuza de mä?

“… E a ‘ste panse veue cose che daià
cose da beive, cose da mangiä
frittûa de pigneu giancu de Purtufin
çervelle de bae ‘nt’u meximu vin
lasagne da fiddià ai quattru tucchi
paciûgu in aegruduse de lévre de cuppi…”

“E a queste pance vuote cosa gli darà
cosa da bere, cosa da mangiare
frittura di pesciolini, bianco di Portofino
cervelle di agnello nello stesso vino
lasagne da tagliare ai quattro sughi
pasticcio in agrodolce di ‘lepre di tegole’ (gatto)”.

Una canzone in cui si parla di cibo a profusione!

Ma veniamo all’ingrediente principale della nostra ricetta.
Bietole, così popolari nella cucina ligure eppure svilite dai più. Ma chi l’ha detto che sono noiose?!? E comunque è proprio vero che fanno bene! Sono rimineralizzanti, antianemiche, diuretiche e anti-stitichezza. Sono perfette per chi soffre di infezioni alle vie urinarie ed emorroidi. E fanno bene alla dieta, perché hanno solo 19 kcal per 100gr!

Ci sono due tipi di bietola: quella da taglio (la bieta erbetta) e quella da coste, che con i suoi gambi carnosi è quella che si usa in Liguria. La bietola viene raccolta tutto l’anno, tranne che nei mesi più freddi; il miglior raccolto si ha all’inizio dell’inverno e in primavera.

smacafam

Lo smacafam

È una torta salata rustica che appartiene alla gastronomia trentina. Il suo nome significa “schiaccia fame” e in effetti, coi suoi ingredienti sostanziosi, è perfetta per placare l’appetito. Tipico della tradizione carnevalesca, viene servita come corposa merenda, come antipasto o come piatto principale, in tal caso spesso accompagnato da un’insalatina di tarassaco, meglio conosciuto come ‘dente di leone’, una pianta comune dai grossi fiori gialli e dalle proprietà depurative che ben controbilanciano le qualità piuttosto ‘pesanti’ dello Smacafam! Altro contorno tipico: i crauti, che sono fermentati e dunque benefici alla digestione.

Appena sfornato, caldo caldo, è una vera delizia. Ma ancor di più, il giorno dopo, come si usa dire in dialetto: ancòi e per doman (d’altra parte ciò è vero per tutte le torte salate: con il passare delle ore i gusti dei vari ingredienti si amalgamo sempre meglio e quello d’insieme ne viene esaltato).

Passiamo gli ingredienti dello Smacafam. Innanzitutto la lucanica, orgoglio trentino, è il salume che si trova ogni casa contadina (e non contadina!) Ha un gusto delicato e speziato e tantissime varianti – in alcune valli quella stagionata si produce con carne di cavallo, di capra e persino di struzzo (Valsugana). La lucanica fresca è protagonista di molte delle ricette regionali più popolari, a partire dai canerderli per arrivare allo Smacafam, appunto. Altro ingrediente particolare è la farina di grano saraceno. Alcune versioni dello Smacafam utilizzano solo la farina di grano tenero, ma quella con grano saraceno è più saporita e salutare. Questo “pseudo cereale”, infatti, ha davvero molte proprietà benefiche, tra cui quelle antiossidanti e antinfiammatorie. Sapete qual è l’organo che nel corpo umano ne beneficia dipiù? Il pancreas, una ghiandola molto importante annessa al nostro apparato digerente.

Arselle alla cagliaritana

Si chiama Cocciula a sa Casteddaia, nel sud della Sardegna, questa ricetta di mare semplice e infallibile. In italiano: Arselle alla cagliaritana, o ancora più semplicemente Arselle alla sarda. “Sa Casteddaia” è la Cagliaritana, e ci sono altre ricette tipiche del capoluogo sardo che portano tale nome, in particolare la Burrida a sa casteddaia, un piatto a base di gattuccio marino, aceto e noci e l’Aligusta a sa casteddaia – aragosta condita alla cagliaritana. Ma torniamo alle nostre arselle.

Che differenza c’è tra arselle e vongole? Tantissime! Appartengono addirittura a due famiglie diverse. In questo caso, però, non ce n’è alcuna. Perché??? Perché in Sardegna si chiamano “arselle” i frutti di mare che “in Continente” (ossia nell’Italia non-insulare, detto “alla sarda”) si chiamano “vongole”. E vongole veraci nostrane, per di più! Già, perché se purtroppo in quasi tutto il mare che bagna l’Italia, la pregiata e saporitissima vongola verace nostrana è stata quasi totalmente soppiantata da quella filippina, il mare sardo è riuscito a resistere più a lungo all’invasione.

La ”cocciula” è dunque la vongola verace autoctona, di cui esistono diverse varietà (bianca, nera e pintada, ossia bianco-nera, e poi arubbia, de sanguni…). Purtroppo da 5 anni a questa parte, anche il mare di Sardegna è stato infestato. Resistono alcune sacche, come parti dello Stagno di Santa Gilla a Cagliari (una delle più importanti aree umide d’Europa) e la laguna di Arborea, nei pressi di Oristano, dove vivono le arselle di Marceddì, protette da Slow Food, la grande associazione impegnata da decenni a ridare valore al cibo genuino e ai suoi produttori.

focaccia

Focaccia con il formaggio

Focaccia al formaggio, focaccia con il formaggio, focaccia di Recco… Oggi Maria Teresa Ruta si cimenta con una ricetta della tradizione ligure e non poteva che intonare la canzone più bella per i genovesi, quella nostalgica “Ma se ghe pensu“… Per poi dedicarsi a una delizia copiata in tutto il mondo, la focaccia al formaggio naturalmente!

Viene dall’entroterra e una volta era preparata con le formaggette locali, poi sostituite dallo stracchino, di più facile utilizzo e reperimento nell’arco dell’intero anno. Ma c’è stracchino e stracchino. Qual è quello giusto? La sua giusta consistenza cremosa è abbastanza morbida da amalgamarsi bene con la sfoglia di pasta ma non tanto molle da far restare l’umidità. La graduazione della cottura – che per essere davvero ad hoc deve avvenire nel forno a legna- va messa a punto considerando le caratteristiche dello stracchino utilizzato ed è questo un “segreto” per la buona riuscita della focaccia di Recco.
Lo stracchino, il cui nome viene dal lombardo “stracch”, che significa “stanco” ed è preparato col latte vaccino intero. Ha circa 275 calorie per 100gr. Un etto di focaccia di Recco, invece ne contiene circa 130 kcal (una porzione è di solito sui due etti e mezzo, dunque 320 kcal).

Oggi la focaccia di Recco è un prodotto a Indicazione Geografica Tipica (IGP),
che possiede dunque un Disciplinare di produzione. Che tipo di farina prevede il Disciplinare? La farina di grano tenero 00 oppure, in alternativa, la manitoba, uno sfarinato raffinato di frumento semi-duro che viene dall’America del Nord e che contiene molto glutine e quindi si presta come base ideale per preparazioni da forno ricche di grassi ma anche a lunga lievitazione (che non è il caso della focaccia di Recco) perché contrasta l’effetto “indebolente” dei grassi sulla “maglia glutinica elastica” a discapito della lievitazione.

Alla versione classica – e unica – della focaccia al formaggio di Recco si affianca oramai la “pizzata”,
con salsa di pomodoro e solitamente capperi, piuttosto che altre varianti con ingredienti affatto ortodossi (prosciutto cotto&c.)
Lo sapevate che in origine la focaccia si preparava per il 2 novembre, il giorno dedicato ai nostri morti? O, almeno, così, pare… un giorno che era “di magro” ma nello stesso tempo di celebrazione.

Amatissima non solo in Liguria ma forse più ancora nel resto d’Italia
, la focaccia al formaggio di Recco è oramai una pietanza nota anche all’estero. Eppure non tutti l’apprezzavano, considerandola quasi una versione imbastardita della classica focaccia. Ecco cosa ha scritto il notissimo commediografo, poeta e giornalista genovese Vito Elio Petrucci, nato al Lagaccio, nella sua poesia in omaggio alla focaccia. Dedica il finale proprio a quella al formaggio: “S’aa l’è a-o formaggio. Un Segnô faeto cheugo o no savieva fâ mëgio fugassa”.

golas

Gòlas alla goriziana

La seconda puntata della nuova serie di Chef per passione è una delizia che rimanda all’Ungheria e alle nostre terre di confine, come scoprirete guardando la ricetta cucinata per voi da Maria Teresa Ruta.

Il Gòlas è la versione goriziana del Gulasch, una sorta di zuppa-spezzatino di carne di origine ungherese che veniva fatta cuocere dai contadini in grandi pentoloni di ghisa, una cottura molto lenta in cui la carne viene fatta cuocere nel brodo di carne, ed è proprio questa la forza del Gulasch.
La versione goriziana non è “rossa”, ossia non si prevede l’uso del pomodoro. In compenso, rosso è il vino con cui si fuma la ricetta e rossa è la paprica (che in italiano si scrive con la “c”, non con la “k”!), spezia che abbonda in ogni versione di Gulasch.
La paprica si ottiene da vari tipi di peperone, che viene essiccato e macinato. E sapete da chi fu introdotto il peperone in Europa? Proprio dagli ungheresi, che lo importarono dai turchi, che a loro volta lo avevano preso in India… Paprika con la “k” in ungherese vuol dire “peperone”. Tutto torna! Può essere dolce o più piccante, mail suo inconfondibile sapore è comunque dolciastro-piccante.
Oltre alla paprica, altre due spezie aromatizzano il Gòlas: una è il cumino, presente anche nella versione ungherese, e l’altra è la maggiorana, tipica solo invece della versione goriziana.
A Gorizia, città di confine del Friuli Venezia Giulia, a partire dall’autunno il Gòlas è super-gettonato e si trova praticamente in ogni trattoria. Non solo come secondo piatto: il sugo viene usato anche per condire gli gnocchi, di patate o di pane, piuttosto che la polenta.
La versione più comune è quella che prevede – come il Gulasch – l’utilizzo della carne di manzo. Vi proponiamo qua invece la versione fatta con il guanciale, quel grasso di pregio che arriva dalla guancia del maiale.
Una nota: per assaporare il Gòlas in tutta la sua bontà, vi consiglio di prepararlo il giorno prima!

coniglio

Coniglio a’ stimpirata

La prima ricetta della nuova serie. Che emozione! Questa ricetta è stata preparata da Maria Teresa Ruta con l’affiancamento di Andrea Cresta, il nostro professore.

La stimpirata

La “stimpirata” è un termine siciliano che viene dal latino “temperare”, nel senso di mescolare e armonizzare. Si usa in ogni piatto – di carne, pesce o vegetale che sia – in cui la preparazione-base prevede l’uso di aceto, menta, aglio, sedano e olive. Prodotti poveri, a disposizione di tutti, che nella tradizione contadina si abbinavano con le verdure o con le carni degli animali del proprio cortile: polli. O conigli, appunto. Nella cucina di mare, invece, tipico è il pescespada. La Stimpirata è molto in uso nella Sicilia sudorientale e in particolare nel Ragusano e nel Siracusano.

Si tratta, sostanzialmente, di una preparazione in agrodolce. E come spesso avviene in tali casi, ha bisogno di riposare un po’ prima di essere servita (almeno 6 ore): meglio quindi cucinare questa pietanza con un po’ di anticipo. Inoltre è importante ricordare di servire il piatto a temperatura ambiente o comunque solo intiepidito, mai caldo: l’agrodolce altrimenti può diventare stucchevole, perdendo quell’elemento di freschezza dato dalle erbe aromatiche a favore della nota pungente e troppo acida dell’aceto che con il calore si riattiverebbe, predominando sugli altri profumi.

Il coniglio

Parliamo del coniglio, dato che sulle sue carni regna spesso confusione: bianca o rossa? Grassa o magra? Ebbene, si tratta di una carne bianca e magra, quindi adatta alla maggior parte delle esigenze nutrizionali. È comunque doveroso ricordare che il coniglio è molto spesso oggetto di allevamenti intensivi caratterizzati da spazi di crescita ridotti e sottoposti a sovralimentazione; inoltre, nell’allevamento intensivo, non si esclude (anzi, è presumibile) l’utilizzo di notevoli quantità di farmaci, tra cui gli antibiotici. Con questa consapevolezza, scelgo con cura un coniglio che venga da un allevamento sostenibile. E lo ringrazio per essersi sacrificato per me, davvero!

Varianti

Parlando degli altri ingredienti della ricetta, oltre quelli classici che stiamo utilizzando, ci sono molte varianti che comprendono l’aggiunta di pomodoro piuttosto che scorza d’agrume, uva passa o pinoli.

Il nostro suggerimento? Accompagnatelo in ogni caso con un buon pane casereccio, per fare la scarpetta!

Procedimento

Tagliare a pezzi il coniglio e porlo in tegame nell’olio caldo. Mettere i pezzi a parte. Preparare quindi la “stimpirata” facendo soffriggere il sedano affettato, l’aglio, le carote tagliate a dadini, la cipolla e il sedano; aggiungere le olive sminuzzate, i capperi dissalati, sale, pepe e qualche fogliolina di menta.
Aggiungere alla salsa i pezzi di coniglio, amalgamare bene, quindi versare il bicchiere di aceto in cui è stato disciolto un cucchiaio raso di zucchero, facendo evaporare. Fare cuocere a fiamma bassa per trenta o cinquanta minuti, aggiungendo acqua, per evitare che bruci. Servire tiepido, magari a temperatura ambiente.

La “stimpirata” viene dal latino “temperare” nel senso di mescolare e armonizzare. La “stimpirata” è il nome di ogni preparazione con aceto, menta, aglio, sedano e olive. Molto in uso nel Siracusano e nel Ragusano.

Cream Tart

La Cream tart in 20’… o quasi.
La torta più amata per i compleanni fatta dalla nostra Luisa con un bellissimo… piatto decorato!

PREPARATE LA PASTA FROLLA
Mettete il burro freddo di frigo e tagliato a pezzetti in una ciotola insieme allo zucchero a velo, all’uovo intero e alla farina e lavorateli velocemente con le mani in modo da creare un composto sbricioloso. Impastate velocemente tutti gli ingredienti in modo da ottenere un panetto omogeneo cercando di non scaldarlo troppo con il calore delle mani. Mettete il panetto di pasta frolla a riposare in frigo per mezz’ora circa mentre preparate la crema per la farcitura.

PREPARATE LA CREMA DI LATTE
Montate la panna a neve fermissima. Mettete in una ciotola il mascarpone e il latte condensato e mescolateli bene insieme poi unite la panna montata con movimenti delicati e dal basso verso l’alto per cercare di non smontare eccessivamente la crema.

PREPARATE LA BASE PER LA CREAM TART
Prendete il panetto di pasta frolla dal frigo e dividetelo in due parti. Stendete tutte e due le parti tra due fogli di carta forno in modo che non si appiccichi al matterello e create la forma che volete dare alla vostra cream tart tagliando con il coltello. Se volete farla con un numero o con una lettera o con un cuore vi basterà fare il disegno su un foglio e ritagliarlo. Create le due figure e mettetele delicatamente su un tegame con carta forno poi bucherellatele con una forchetta in modo che non si gonfi in cottura. Cuocete le due basi in forno preriscaldato a 180° ventilato per 15 minuti circa fino a che saranno dorate, sfornatele e fatele raffreddare. Con i ritagli di pasta frolla tagliate dei biscottini da mettere come decorazione sulla cream tart.

COMPONETE LA CREAM TART
Mettete la prima base di pasta frolla su un piatto da portata poi mettete la crema di latte in un sac a poche o in un sacchetto da congelo al quale avrete tagliato un angolo e fate tanti ciuffetti di crema su tutta la base di frolla. Mettete la seconda base di frolla sopra alla farcitura di crema e fate altrettanti ciuffetti di crema sopra. Decorate la cream tart con frutta fresca, i biscottini che avete preparato, granella di pistacchi e, se volete, fiori eduli.

Mattonella al Limone

Quando c’è proprio bisogno di tirarsi su cosa c’è di meglio di un dolce con limoncello e scorza di limone? 

Ecco allora la mattonella al limone: semplice, golosa e… ricca di vitamina C (così anche la coscienza è a posto)

Mettete in un pentolino il latte insieme ai semini interni della stecca di vaniglia e la scorza di limone e fateli scaldare. Mettete in una ciotola i tuorli delle uova, lo zucchero e l’amido di mais e mescolate bene. Sbattete il composto di uova per qualche minuto con la forchetta poi mettetelo all’interno del latte caldo nel pentolino e non girate.

Fate cuocere per 5 minuti circa fino a che inizieranno a formarsi dei vulcani in superficie, a quel punto girate molto velocemente con una frusta a mano in modo da non creare troppi grumi e cuocete ancora per due minuti circa. Spegnete il fuoco, fate raffreddare leggermente e unite il limoncello.Mescolate e amalgamate il limoncello alla crema pasticcera. Mettete in una ciotola il latte e il limoncello e pucciate velocemente i biscotti poi metteteli sulla base di una pirofila. Fate uno strato di crema pasticcera al limoncello e stendetela bene. Mettete un altro strato di biscotti inzuppati nel latte e limoncello e fate un altro strato di crema.Continuate così ad alternare strati di crema pasticcera al limoncello e biscotti e terminate con uno strato di crema. Decorate con scorza di limone grattugiata.Mettete la mattonella al limone in frigo.

Peperoni Ripieni

Veloce, saporitissimo e adatto a tutte le stagioni. Ecco un secondo… stratosferico!

Lavate i peperoni e tagliate la parte alta con il picciolo. Puliteli all’interno eliminando la parte bianca e i semi e sciacquateli sotto l’acqua corrente del rubinetto poi asciugateli bene con carta assorbente.

Fate scolare la ricotta dal siero e mettetela in una ciotola. Unite la ricotta, le uova, il formaggio grattugiato, il pangrattato (a seconda della cremosità della ricotta) il sale e il prezzemolo tritato insieme all’aglio.

Riempite i peperoni fino al bordo con il composto di ricotta e formaggio, spolverizzate di pangrattato e fate un giro di olio extravergine di oliva e cuocete in forno preriscaldato a 180° per 25 minuti circa fino a che si sarà formata una crosticina dorata sopra. Se volete gli ultimi minuti di cottura potete mettere il grill e farli gratinare meglio.